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Breve saggio sul rapporto fra suicidio e processo di identificazione
"… ciò che si chiama ragione di vivere è allo stesso tempo un’eccellente ragione di morire …"
(Il mito di Sisifo, Albert Camus)
Nei giorni in cui sentivo di aver timidamente compreso di essere “giusto di cottura” per affrontare seriamente - con pancia, cuore, testa e anima - l’argomento oggetto del presente saggio, ci giunge la notizia del suicidio di Mario Monicelli. Dopo poche settimane, la televisione propone al grande pubblico un classico della libertà: “L’attimo fuggente”, breve tragedia moderna, sospesa fra un apollineo schiacciante e un dionisiaco represso, che dà tuttavia il meglio (o il peggio) di sé nel suicidio di uno dei protagonisti.
Il suicidio è un atto di natura tragica. In letteratura si dice che il tragico costituisce una sfera di esperienza basata su comportamenti estremi e definitivi, in cui l’esistenza degli eroi si confronta con l’arduo destino e con le forze estranee all’uomo, in cui il rapporto tra i personaggi (eroi, semi-eroi, anti-eroi, etc.) comporta un esito distruttivo e rovinoso; la serietà (eccessiva) della vita, il carattere totalizzante dell’esperienza, il rapporto inevitabile con la fine, la rovina, la mancanza di speranza, il dolore e la morte, sono elementi determinanti del tragico; e tragiche sono le azioni basate su valori irriducibili, in cui realtà umane di profondo significato si schiantano di fronte al destino, pur continuando ad affermare fino in fondo il proprio valore. Tragico è del resto tutto ciò che si risolve in un esito catastrofico, e che suscita terrore e compassione.
Il suicidio è dunque una tragedia. E’ un tradimento. E’ un argomento molto brutto, disarmante, agghiacciante, pauroso. Anzi, mi verrebbe da dire che il suicidio è il non-argomento per antonomasia: nessuno lo affronta quasi mai, nessuno ama parlarne, e se esso viene evocato, esso gode di una cittadinanza alquanto ristretta limitata alla coscienza di chi ha il coraggio di accoglierlo per più di qualche istante. Affrontare il tema del suicidio è delicato e incosciente tanto quanto considerare il diavolo in persona come nostro dessert … se non si ha un cucchiaio più che lungo e ben strutturato, si rischia di fare una sgradevole fine.
Ci sono stati momenti nella mia vita in cui se avessi scritto sul suicidio, avrei potuto fare la fine di quel dessert. In altri momenti, viceversa, l’argomento mi sarebbe parso così lontano dalle mie esigenze e contingenze, che l’avrei trattato con superficialità, limitandomi a stigmatizzare una cosa così poco lodevole, così tanto debole quanto toccante. Mi pare che invece questo sia un buon momento per me per mettere giù qualche riga, spero di qualche utilità. Nessun essere umano, che abbia voluto vivere veramente e intensamente, infatti, può dire di non avere mai pensato, neanche per un solo attimo, all’ipotesi di una propria morte procurata. Scriveva al proposito Sigmund Freud nel “Disagio della civiltà”:
“La vita, così come ci è imposta, è troppo dura per noi; ci reca troppi dolori, disinganni, compiti impossibili da risolvere.”
Questa affermazione di Freud sembra dettata da un pessimismo profondo, ma – come ricorda Aldo Carotenuto – cui va il mio perenne ringraziamento soprattutto per le sue riflessioni in argomento – si tratta di un qualcosa che potrebbe sottoscrivere chiunque abbia voluto vivere pienamente la vita come la vita vive se stessa … è innegabile che in certi momenti della nostra vita avremmo voluto restituire il biglietto di ingresso con un tanto di “commosso, ringrazio, ma la festa può andare avanti anche senza di me …” o qualcosa di simile …
Del resto, il tradimento di cui siamo tutti vittime (uno dei tanti tradimenti che subiamo come vittime e carnefici del sistema illusorio ego-mente-mondo) ha origini nella nostra prima infanzia. Come riporta Carotenuto, “il nostro debutto nella vita è (di norma) promettente, almeno nelle primissime scene: abbiamo sete, qualcuno ci disseta; abbiamo fame, qualcuno ci farà mangiare; vogliamo dormire, qualcuno cercherà di farci dormire”. Insomma, di regola, veniamo tirati su nel segno della bellezza e della fiducia nella giustizia del mondo esterno, perché la costante soddisfazione delle nostre richieste ce le fa sentire giuste, e giusta ci fa sentire la vita che così puntualmente riconosce i nostri diritti.
E’ questo senso della “giustezza” della vita che ci spinge a stipulare con essa un patto inconscio (e si spera anche indissolubile): essa sarà sempre dalla nostra parte e le cose prima o poi sempre si aggiusteranno. Non a caso, è soprattutto con l’età più giovane che noi notiamo quella spontaneità, fiducia, ottimismo e slancio, che fa tanto invidia a chi invece è più avanti negli anni.
Considerando anche la delicata fase neonatale e infantile, soprattuto quando siamo adolescenti - e siamo ancora principianti con la vita (mi domando se con la vita si diventi mai esperti …) - tutto ciò che noi desideriamo per soddisfare i nostri bisogni sembra essere più a portata di mano. In questi momenti si consolida e si solidifica il concetto che la “vita è bella” e che “ce la si può sempre fare”; sappiamo, anzi, che i primi dodici/quattordici anni di vita di una persona sono i più importanti e delicati di tutta la sua esistenza: se questi anni sono stati vissuti bene senza particolari traumi, la vita apparirà (non necessariamente: sarà) sempre affrontabile senza troppe ansie, insicurezze e deficit. Se questi primi anni invece sono stati vissuti “male”, allora la vita apparirà (anche se non necessariamente sarà) sempre affrontabile con difficoltà, con ansia, con insicurezza e disagio, salvo che successivamente intervenga un serio e importante lavoro interiore di rettificazione e di ristrutturazione delle fondamenta danneggiate durante i primi lustri dalla nostra nascita (lavoro che tuttavia, molto probabilmente, darà comunque una marcia in più anche nei confronti di coloro “fortunati” che fin dall’inizio “se la sono passata bene”).
Vale tuttavia per tutti, “fortunati o meno”, che crescendo si incontrano “più consapevolmente” quelle difficoltà (che da bambini vengono più spesso smussate e ammorbidite), quelle frustrazioni e le prime richieste inevase; e allora, il senso di giustizia si farà sempre più tenue, fino in certi casi estremi a sbiadire del tutto. E’ in questo momento che il precitato patto inconscio stretto fra l’uomo e la vita subisce il primo colpo. Partiamo tutti da un piedistallo ossimorico – quello della infanzia – che è fin troppo alto, e da cui, per assurdo, tutto viene vissuto e visto fin troppo dal basso, e da questo “paradiso” veniamo prima o poi cacciati; non pensiamo mai abbastanza al fatto che il senso di giustizia, di bellezza, di armonia … è sempre vissuto in noi come qualcosa di oggettivo, di assoluto, di universale, talmente ovvio e scontato e al di sopra delle parti, che con gli anni, delusione dopo delusione, si finisce con il confidare unicamente nella divina provvidenza, dando ormai per scontato che nel mondo e tra gli esseri umani non valga nemmeno la pena di cercarla.
Siamo coltivati e cresciuti con questa idea di una armonia che regola il mondo come una specie di gravitazione newtoniana, ma poi la vita ci ha svelato il suo volto, spesso assurdo, illogico, incongruo, incoerente, irrazionale, ma anche bellissimo, misterioso, magico. Occorrerà raffinare e di parecchio il nostro terzo occhio, il nostro sentire interiore, sapere andare oltre la naturale esclusivamente mercuriale della nostra mente per poter decifrare ciò che la vita vuole dirci in quel dato momento. Questa operazione di rettificazione sarà assolutamente necessaria se non vorremo un giorno realizzare che la vita è completamente inaffidabile, e che quel patto iniziale verrà, prima o poi, sempre infranto: se così accadesse, il tradimento che la vita ci impone non mantenendo i suoi patti, in alcuni casi, ci potrebbe più facilmente condurre a desiderare ardentemente la nostra morte.
Seneca, il principale rappresentante dello stoicismo nella Roma imperiale, scriveva che si doveva ringraziare Dio del fatto che nessuno poteva essere trattenuto in vita contro la sua stessa volontà. Non è una novità, del resto, che l’antichità classica ha accettato di valutare come “eroico” l’atto suicida, come espressione della rivendicazione della libertà di ciascun individuo; tra i nomi più conosciuti di suicidi non possiamo dimenticare lo stesso Seneca, Licurgo, Socrate (anche se nel Fedone lo condanna), Diogene, Demostene, Catone, e la lista dei VIP nel corso della storia si potrebbe alquanto allungare; difficilmente troviamo degli stupidi o dei superficiali fra i suicidi, tutt’al più si tratta di personalità istrioniche o egocentriche, ma raramente intellettualmente poco brillanti. Seneca sosteneva che si sbagliano quei filosofi che negano agli uomini il diritto di usare violenza alla propria vita, hanno torto nel sostenere che va atteso il termine stabilito da madre natura. Nelle sue “Lettere a Lucilio” Seneca ribadisce che non si può chiudere la via della libertà:
" … Ciascuno è libero di giudicare come vuole questo atto d’inaudita violenza contro se stesso, purché sia chiaro che la morte più sudicia è da preferirsi alla più pulita delle schiavitù …"
Se nella sua Etica Nicomachea Aristotele – pensatore poi fin troppo caro all’Occidente e al Cristianesimo – condanna il suicidio come atto di codardia e come offensivo dello Stato. Nella legislazione vigente in Grecia e a Roma esso non viene mai contemplato come un crimine etico-religioso. Secoli prima, Omero non biasima il suicidio di Giocasta, la madre-moglie di Edipo, o quello dell’eroe Aiace, né successivamente Virgilio biasima il suicidio commesso da Didone, una volta che la regina capisce di avere perso irrimediabilmente Enea. I rappresentanti delle scuole di pensiero ellenistiche (cinici, stoici, epicurei) accettavano il suicidio: la massima Mori licet cui vivere non placet non viene quasi mai messa in discussione.
La condanna del suicidio, in Occidente, è invece legata all’avvento del Cristianesimo. Tuttavia, essa viene pronunciata tardivamente da Agostino nel De civitate Dei, e ufficialmente dal secondo concilio di Orléans del VI secolo; e dal 563, poi, col concilio di Barga, a chiunque abbia commesso suicidio è interdetta la sepoltura cristiana. Se dunque per il mondo pagano è accettabile la decisione di morire da parte di chi non voglia più vivere e, anzi, essa viene connotata come espressione di libertà e quasi atto che eguaglia gli uomini agli déi, col cristianesimo il suicidio è irrevocabilmente peccato, violazione del quinto comandamento, violazione dello stesso istinto di conservazione, tradimento degli obblighi contratti, a partire dalla nascita, nei confronti di Dio, della collettività e di se stessi.
Durante il Rinascimento – con la riscoperta dei classici, con la nuova valorizzazione della cultura pagana e con i primi passi della secolarizzazione – è all’opera una certa inversione di tendenza, e il suicidio viene considerato in una prospettiva maggiormente tollerante, come del resto tanti altri aspetti della vita sociale e privata. Gli effetti di questa apertura verso il suicidio si potranno forse ritrovare nelle riflessioni inserite nel Biathanatos del poeta metafisico, nonché uomo di chiesa, John Donne, che agli inizi del 1600 affrontò il tema del suicidio da un punto di vista teologico, filosofico e giuridico. Dall’età moderna in poi (si pensi alle riflessioni di David Hume) il tema del suicidio –come molti aspetti della vita – si disancorerà sempre più dall’aut-aut religioso, senza tuttavia mai sistematizzare e organizzare in modo completo e armonico un argomento così delicato e spinoso.
Sul suicidio, il mondo contemporaneo non ha ancora espresso quella posizione ufficiale e maggiormente condivisa che gli storici futuri potranno eventualmente scorgere e circoscrivere. Del resto si tratta di tempi, questi, in cui è ammesso tutto e il contrario di tutto, in cui siamo in presenza di una molteplicità policroma e di una libertà senza precedenti. Ma siamo anche in presenza di nuove sofferenze, che fanno eco al nostro comune desiderio di non vivere “così male” come il tempo che fu e che vorremmo avere lasciato definitivamente alle nostre spalle; il fatto è che di fare fatica non ne abbiamo più voglia. E siamo anche in presenza di un assurdo accanimento alla vita, che fa da contraltare al nostro timore della sofferenza, del sudore, del sangue … e in ultimo della morte. In pratica, volendo banalizzare, l’equazione di questi tempi mi sembra sia come segue: troppo benessere e libertà acquistati in tempi record = troppa paura di tornare indietro = troppa paura di soffrire = tabù della malattia e della morte = accanimento viscerale alla vita anche nelle sue forme più assurde (che vanno dallo sballo in discoteca con droghe, al mantenimento in vita di esseri ormai clinicamente morti).
Parlando di morti che respirano, mi rammento ancora il caso di Eluana Englaro, che destò non poche polemiche; al tempo avevo espresso una posizione decisamente poco in sintonia con i desiderata ufficiali della Chiesa di Roma, e tuttora mi sento di confermare quelle mie parole che qui brevemente riporto:
“Come cattolico – e come insegnante di religione, di nomina vescovile, ma di inquadramento statale – non posso non ascoltare le voci più illustri della spiritualità della nostra penisola. Fra queste, trovo che la più adatta per me sia proprio quella del prof. Giovanni Reale - filosofo cattolico fra i più noti - il quale, sul Corriere di oggi sabato 7 febbraio, ha espresso dei concetti e dei principi che fanno salva sia la nostra dimensione intimamente religiosa, che la nostra dimensione strettamente politica e civica. Mi permetto di riportare qui di seguito le parole di Reale:
“… Il decreto del Governo è un errore, si oppone all’idea di libertà su cui è radicato il concetto occidentale dell’uomo. E lo dico da cattolico. Napolitano ha fatto il suo dovere di Presidente, ha richiamato l’attenzione sulla sostanza della Costituzione. Un uomo saggio. Almeno uno. La tesi portata avanti da molti uomini della Chiesa, e ora dal Governo, è sbagliata e va corretta. Nel caso di Eluana vedo un abuso da parte di una civiltà tecnologica totalizzante, così gonfia di sé e dei suoi successi da volersi sostituire alla natura. Si è perduta la saggezza della giusta misura. La Chiesa, e il governo insieme a lei, sono vittime di questo paradigma culturale predominante. … L’errore che con Eluana stanno facendo religiosi e uomini di governo è di cadere nella politicizzazione di qualcosa che con la politica non c’entra niente, che è metapolitico. … omissis … Quando Socrate deve bere la cicuta, qualcuno gli suggerisce: “C’è ancora qualche ora, attendi finché il sole non sia tramontato”. Ma non ha senso aggrapparsi alla vita quando non c’è più …”.”
Ebbene sì, anche a mio modo di vedere, la nostra società – giunta ormai all’apice di tante conquiste - è fin troppo spesso una cività tecnologica totalizzante, così tronfia e gonfia di sé e dei suoi successi che vuole sostituirsi alla natura, al mistero, al vuoto, all’inconsueto, all’assurdo, all’irrazionale, a Dio … . E in questo suo Total Streben si dimentica che il tempo è fatto di stagioni, di primavere, di estati, di autunni e di inverni; che la vita deve essere vissuta come essa vive se stessa, che l’uomo, il mondo, l’universo, il creato e dunque la vita stessa sono un grande mistero che nessuna scienza e nessuna tecnologia potrebbe mai comprendere e spiegare pienamente. Ma questo suo Total Streben - figlio del suo stesso horror vacui - è anche asservito al sistema consumocratico che tutto produce e tutto divora, timoroso come è delle libertà individuali e delle scelte del singolo. Per assurdo questa nostra società - confezionata in funzione delle famiglie da “Mulino Bianco” - è sì individualista, ma non nel senso che l’individuo incarni l’eroe cosmico cristico che deve portare a compimento la Grande Opera a nome proprio e dell’intera collettività; ma semmai nel senso che l’individuo coltivato dal sistema deve essere asservito il più possibile alle logiche della massa acritica, ora nazionalista e guerrafondaia, ora mondana, politically correct, benpensante e consumocratica … secondo la logica del Regno di Quantità ben espresse da René Guénon. Ma l’anima degli uomini liberi, figli della Filosofia Perenne, si ribellerà sempre a ogni forma di massificazione e “regimentazione”, se queste non sono veramente funzionali alla verità e al mistero che da sempre l’accompagna. E in questo mistero trova cittadinanza una delle poche libertà che possiamo avere quando affrontiamo pienamente e a viso aperto la vita stessa: la libertà di vivere e la libertà di morire.
E’ una prescrizione non scritta nel nostro modello culturale che impone che si occulti la realtà del fallimento, della sofferenza e soprattutto della morte: il sogno di onnipotenza alimentato dalla società tecnologica dell’homo economicus è ben consapevole di essere rimesso in discussione da ogni sconfitta del corpo, dalla malattia, dalla vecchiaia, e in ultima analisi da tutto ciò che può indurci a interrogarci sulla precarietà e sul senso della nostra esistenza. Questa ricerca del senso, il non essere più disposti a riconoscersi nel canone collettivo che sempre offre significati confezionati e funzionali al sistema di valori di “madre-sesso e padre-lavoro” o comunque diversi rispetto ai nostri valori individuali, configura la morte come un’opportunità, forse a volte la sola, attraverso cui arriviamo a scegliere la vita. Come prontamente afferma Aldo Carotenuto, “finchè non possiamo scegliere la morte, simbolicamente, o in alcuni casi addirittura concretamente, è chiaro che non possiamo scegliere la vita”. Ma il suicidio ci dice invece che la morte può essere scelta.
Tutti coloro che, in un modo o in un altro, entrano in conflitto con i dettami delle convenzioni esterne, per dare ascolto alla voce della propria interiorità, rispondono a una chiamata che li confronta necessariamente con la realtà della morte, come si dimostrerebbe bene a livello astrologico analizzando i nodi psicologici presenti sull’asse seconda/ottava casa. E infatti il coraggio di interrogarsi sul senso della vita, strettamente legato al senso della nostra corporeità, nonché delle scelte individuali, comporta una relativizzazione della nostra illusione di onnipotenza, e cioè anche di contemplare l’inevitabile esperienza del morire. E’ solo quando si percepisce profondamente e intensamente la “fuggevolezza” di questa nostra apparizione sulla terra che si crea uno spazio per una riflessione sul senso della nostra vita. In mancanza di questa riflessione, rischiamo di essere una corrente anonima che precipita a valle, ostentando i nostri averi, la nostra casa, la nostra professione, la nostra rispettabilità, i nostri figli, oltre alle quattro cose che abbiamo leggiucchiato qua e là …
“Spiritualità significa risveglio. La maggior parte delle persone, pur non sapendolo, sono addormentate.Sono nate dormendo, vivono dormendo, si sposano dormendo, allevano i figli dormendo, muoiono dormendo senza mai svegliarsi. Non arrivano mai a comprendere la bellezza e lo splendore di quella cosa che chiamiamo esistenza umana.La maggior parte della gente afferma di voler uscire dall'asilo infantile, ma non bisogna crederle. La gente vuole soltanto aggiustare i propri giocattoli rotti: "Ridatemi mia moglie. Ridatemi il mio lavoro. Ridatemi i miei soldi. Ridatemi la mia reputazione, il mio successo". E' questo che vogliono le persone: avere dei nuovi giocattoli. Tutto qui. Persino i migliori psicologi potranno dirvi che le persone non vogliono realmente essere curate. Quel che cercano è il sollievo; una cura sarebbe troppo dolorosa”.
(Padre Antony de Mello)
Non riusciamo a vedere – o ci fa comodo così – come tutte queste identificazioni corrispondano ad altrettante solidificazioni della nostra struttura desiderio/paura, mentre il fiume della vita segue indifferente il suo corso sfociando prima o poi nell’ignoto della morte. E non solo, ma tutte queste identificazioni vengono a loro volta sostenute dal pensiero debole che sorregge la nostra spesso troppo insensata esistenza, e che è quel pensiero che nega o stigmatizza a priori scelte follemente drastiche come il suicidio. Quando invece siamo costretti da una vera spinta emotiva interiore a riflettere su questi temi e sulla nostra vita - quando ci fermiamo veramente e smettiamo di correre per almeno un po’, facendo, forcando e fornicando - allora la nostra “fede” nel materialismo e nell’immanentismo comincia a vacillare. Se la crisi non conduce in un arido trascendentismo, allora non ci basterà più essere “il tal dei tali”, appartenere a quella classe socio-economica e a quella famiglia, perseguire questa o quella meta nell’ambito professionale, etc. etc., ma avremo bisogno di fare un salto di qualità e di una nuova fede cui affidare il ritrovamento del senso di tutto ciò.
Il processo attivato da una simile spinta all’individuazione e all’identificazione non sfocia certo in esiti prevedibili: una persona può uscirne a fatica ma rafforzata, più umana, più centrata e quindi più felice di esistere, ma può anche smarrirsi nel labirinto di una solitudine astiosa, vanagloriosa e senza ritorno, o semplicemente impazzire o compiere gravi gesti, come suicidarsi. La pericolosità della ricerca di un senso non deve meravigliarci, dato che, come osserva C.G. Jung, la presa di coscienza è veramente un furto agli dèi, una colpa prometeica: gli dèi non perdonano le nostre debolezze se osiamo senza averne tutte le facoltà. Ma se tuttavia osiamo e sappiamo di poterlo fare secondo la regola aurea dell’esoterismo “sapere, tacere, osare, volere”, non gli dèi ma gli esseri umani si ribelleranno, anche inconsciamente, al nostro Streben, a questo salto quantico: la storia è disseminata di vittime dell’uomo – da Socrate a Gandhi e John Lennon, passando per Gesù Cristo - vittime che hanno saputo osare nel nome dell’amore e della verità, e che troppo spesso hanno dovuto pagare il prezzo più alto con la propria vita. In ogni caso, la colpa di Prometeo implica, modico gradu, il venire in contatto con la dimensione inconscia e quindi il coraggio di metter da parte tutto ciò che si conosce: il “numinoso”, tanto caro a Rudolf Otto, entra lentamente a far parte della nostra vita e fa ingresso nella nostra esperienza, e non è detto che l’io riuscirà a confrontarsi con esso senza danni, ferite, piaghe e fori nella carne …
Non necessariamente ogni potenziale o effettivo suicida proviene da un’esperienza prometeica di alto livello; ma di esperienza prometeica si tratta sicuramente, foss’anche di ottava inferiore, o di prima porta … del resto i veli di Maya sono per tradizione sette, infiniti i sottoveli, e ogni superamento comporta una morte iniziatica e simbolica, la quale, se non va a buon fine, può facilmente condurre a una morte fisica, più spesso auto-cagionata. Il suicidio viene normalmente giudicato come un esito drammatico del conflitto irrisolto fra leggi del mondo e leggi interiori, conflitto che non ha trovato un assestamento vivibile per l’individuo; una tale scissione, in talune situazioni più delicate, se non conduce alla pazzia, può condurre alla morte.
Sulla considerazione poi che questa morte desiderata, cercata e ottenuta sia stigmatizzabile e condannabile, francamente non posso esprimermi con un giudizio a priori, né soprattutto certo. Cosa ne sappiamo noi se, nel destino di quella singola anima, il suicidio non sia stato il passo che era assolutamente necessario anche per procedere oltre ed evolvere ? Chi ha mai detto o scritto che il suicida è per forza di cose destinato alla Gheenna eterna ? E se così fosse, perché mai, se soprattutto quell’anima singola può dimostrare di aver fatto effettivamente di tutto per cercare di trovare un rimedio alla sua scissione interna e che alla fine, dopo infiniti tentativi, il suicidio non sia avvenuto per mero capriccio, ma solo in seguito a una scelta emotiva e razionale, espressione di una volontà che giuridicamente potremmo definire “chiara, precisa e concordante” ? Chi ha mai detto che il cammino di evoluzione si può compiere solo attraverso un’incarnazione ? Dove sta scritto che il suicida per forza di cose intende maledire Dio e tutta la Creazione ? Dove sono scritti i nostri obblighi ? Chi li ha firmati e quando ? Dove si trova depositata la legge del Dharma che ci imporrebbe una vita che più non vogliamo ? Perché mai pensare che è buon karma vivere un’esistenza che più non piace, ma è cattivo karma porre fine a questa esistenza prima del tempo ? Chi, ribadisco, chi è padrone della mia vita ? Chi ? Come mai molti sistemi giuridici del mondo ammettono l’omicidio ad esempio per stato di necessità (es. una guerra), oppure come estrema difesa personale, ma poi culturalmente si stigmatizza il suicidio ? Come mai la collettività umana ammette che in certi casi un individuo possa uccidere, ma non vede di buon occhio il povero suicida, al quale fino a poco tempo fa veniva addirittura negata la sepoltura in campo santo ? Non è forse più grave fare del male al prossimo piuttosto che a se stessi ? Sembra quasi: alcool si, droga no, e perché ? Non fanno male forse entrambi, se indebitamente usati ? Alors, perché mai non potremmo fare nostro il principio classico già ricordato, secondo cui Mori licet cui vivere non placet ? Oppure, pensiamo a ipotesi in cui il suicidio pare essere l’unica strada percorribile: fece proprio così male Giuda a suicidarsi ? Non è lo stesso Gesù, in Luca 17, 2, a suggerire l’atto suicida in presenza di un grave scaldalo nella propria vita ? Pensiamo poi nuovamente al personaggio suicida del film di Peter Weir citato poche pagine or sono: cosa avrebbe potuto fare quel ragazzo ? Uccidere suo padre ? Fuggire chissà dove ? Imporsi e pagare un prezzo non quantificabile ? Razionalmente direi di sì, ma se poi ciò non avviene, non è per mero capriccio o per debolezza, ma avviene perché avviene, perché nella vita – come ricordava Mussolini del Fascismo della prima ora – ciò che muove il mondo sono solo i rapporti di forza, interni ed esterni … e se la scissione è insopportabile, quale altro gesto è possibile, se l’anima non ne scova alcuno ? Probatio diabolica è dare risposta a questi eterni quesiti, ma poi, perché mai tentare di dare una risposta a ciò che personalmente rivendico e rivendicherò sempre come libertà individuale: è sempre l’anima (che si manifesta attraverso l’io-sono-questo incarnato in un corpo-mente) che fa la scelta che sa di poter fare, ancorché si tratti di una scelta apparentemente anti-esistenziale: del resto, solo Dio conosce ciascun Suo figlio, e solo chi si sente tale conosce la volontà del Padre …
Certo, è anche vero che per taluni aspetti il suicidio ci pare un tradimento e ogni tradimento è vissuto come un’ingiustizia. E l’ingiustizia del sentirsi traditi, nelle proprie attese, dalla vita stessa - che sembra porgerci i suoi frutti, e poi crudelmente non darci i mezzi per coglierli – è una ingiustizia intollerabile:
“O natura, o natura,
perché non rendi poi quel che prometti allor ? perché di tanto
inganni i figli tuoi ?”
… tragicamente ci ricorda Leopardi nei suoi versi A Silvia …
Almeno in teoria, per chi ha veramente fede e affida la propria vita al buon Dio, il tradimento che sembra operarsi nei confronti del singolo è pura illusione: Dio vede e provvede sempre per il nostro bene, il Karma è sempre perfetto, e la Grazia è sempre presente in ogni momento, anche quando crediamo di essere dis-graziati. Le idee di fortuna o sfortuna sono una stupidaggine che neanche il peggiore dei pagani avrebbe potuto partorire, e come idiozia stanno sullo stesso livello del timore dell’invidia degli déi o della predestinazione protestante. Purtroppo però anche l’anima di chi ha veramente fede può incontrare delle prove o degli stalli di particolare peso nel corso delle sua vita, e lo sconforto può conquistare chiunque, anzi, lo sconforto ha conquistato anche lo stesso Gesù, quando sulla croce pronuncia le fatidiche parole:
“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”
(Matteo, 27, 469)
Di conseguenza, se può essere vero che il tradimento che sembra operarsi nei confronti del singolo, da un punto di vista di chi crede, è mera illusione, da un punto di vista della “vita pratica” (o, quindi, anche di chi non è stato dotato di particolare fede) il tradimento sembra quello di un universo che, come la Sfinge crudele, pone continui enigmi ai suoi figli, mantenendoli sempre però nella precarietà delle risposte possibili.
Al proposito, Albert Camus, in modo acuto da vero esistenzialista, scriveva, nell’opera già citata:
“giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia. Il resto – se il mondo abbia tre dimensioni o se lo spirito abbia nove o dodici categorie – viene dopo. Questi sono giochi: prima bisogna rispondere”.
Camus aveva già offerto una risposta in capo a questo mio breve saggio: “ciò che si chiama ragione di vivere è allo stesso tempo un’eccellente ragione di morire”, e del resto anche secondo me non potrebbe essere altrimenti. Pensando anche alla liturgia cristiana, la morte in croce (Quaresima e Pasqua) è uno spartiacque necessario fra un prima (Avvento) e un dopo (Pentecoste), che Cristo stesso avrebbe potuto facilmente evitare .
Per esperienza personale, una ragione per morire non fa che sottolineare le vere ragioni della vita. In molti di quei miei momenti di vera disperazione, ciò che mi chiamava a porre fine alla mia vita era proprio il mio netto rifiuto di vivere la vita che stavo vivendo, volendo semmai viverne un’altra, sempre in carne e ossa, ma con altre condizioni esistenziali. Ciò che mi avrebbe più volte portato al baratro del suicidio era proprio il mio desiderio di vivere come avrei voluto, non il mio desiderio di morire e basta. Per me morte e vita sono sempre stati due lati della medesima medaglia.
Come ricorda Aldo Carotenuto, può spesso capitare che l’atto definitivo e fatale del suicida nasconda – con l’accusa di tradimento rivolta nei confronti della vita – la richiesta magistrale di uno svelamento di ciò che la vita non ci consegna. Il suicidio tradisce la vita, ne svela l’irrisolta ricchezza, ovvero la ricchezza vissuta come irraggiungibile. La doppia valenza del gesto suicida - e cioè la sua distruttività evidente e tuttavia il suo potenziale di riscatto disperato, coraggioso, verticale, autonomo e autarchico (oh, come ho sempre amato l’autarchia !) dall’inautenticità – ci è confermato anche dall’alto numero di casi in cui il suicida lascia dei messaggi scritti: nella sua ultima volontà c’è ancora posto per il mondo, ancora emerge un ultimo tentativo di mettersi in comunicazione con esso.
Schopenhauer sosteneva che il suicida vuole la vita, e in effetti stupisce la tragica esuberanza smaniosa di vita di famosi suicidi. Penso allo scrittore giapponese Yukio Mishima, morto suicida il 25 novembre 1970, il quale lasciò sulla sua scrivania un messaggio folgorante:
“La vita umana è breve, ma io vorrei vivere sempre”
Anch’io, come buona parte della mia scuola psicoanalitica che fa capo a C.G. Jung sono dell’idea che se nella nostra cultura si divenisse più permissivi nei confronti delle crisi interiori, si depotenzierebbe nel cuore di molti animi sensibili il ricorso al suicidio come all’unica scappatoia da una solitudine insostenibile; forse un po’ meno “Top Gun”, “Top Manager”, “Top Model”, meno “Uomini che non devono chiedere mai” … ma si sa, questo discorso potrebbe essere molto lungo, e non vorrei oltremodo ripetermi. Del resto, quanto più il mondo circostante – ormai ampiamente secolarizzato e privo di una direzione collettiva basata sull’amore e sulla verità - è compatto e ostinato nel negare la realtà della sofferenza, tanto più l’individuo che soffre è spinto in una angusta e intollerabile solitudine e alienazione: la sofferenza, un tempo, aveva una certo valore, se non di purificazione, almeno di condivisione. Ora, basta essere fuori di qualche centimetro dalle righe di questa noiosissima società, per cui si rischia di essere facilmente accompagnati all’ASL competente, perché il DSM IV dice … bla bla bla … E’ evidente, tuttavia, che la soluzione non sta solo nella collettività e nella generalità dei consociati; il male di vivere, che conduce al suicidio, è anzitutto responsabilità del singolo, il quale singolo individuo è inserito in un contesto che fortemente condiziona la sua esistenza: ma, sia chiaro, è il singolo che deve tentare di porre il massimo del rimedio possibile al suo problema esistenziale, perché se un domani ci sarà un funerale, quello sarà il suo, e non del mondo che così tanto lo ha condizionato !
Dicevamo, il suicidio è anche un tradimento. Ma per il suicida è la vita che tradisce; è lei che lo “consegna” al nemico, ossia alla morte. Ma non è una morte naturale, ahimé, ma è una morte decisa, spesso freddamente a tavolino, preparata a lungo, meticolosamente e razionalmente, giustificata come uno sterminio di massa. Non sappiamo se anche i suicidi che appaiono essere generati da un impulso improvviso siano poi così spontanei e non premeditati … dubito molto; è più probabile che essi maturino lentamente all’interno di una situazione di vita per la quale diventa insostenibile la continua presenza del tradimento.
Sappiamo che il verbo “tradire” può essere foriero di molteplici significati; abbiamo già visto sopra, oltre a consegnare, esso si declina anche nel significato di “svelare”. Ma in che senso il tradimento da parte della vita ci svela qualcosa non mantenendo le illusioni della nostra infanzia … ? Ebbene, il tradimento che la vita ci impone “svela” la presenza dell’anima, della sua verità, della sua unica autenticità. Infatti, solo dinanzi alle dure potenzialità del suicidio ci accorgiamo di essere veri, di avere una vita psichica, di possedere un’anima; e, viceversa, il cammino che conduce alla scoperta della propria individualità – e quindi all’individuazione – passa sempre attraverso l’esperienza di una o più morti simboliche … o anche attraverso una seria ipotesi di auto-annientamento. Per esperienza personale, nei difficili momenti della mia vita in cui mi sono trovato davanti alla seria ipotesi di passare ad altra vita con congruo anticipo, ho trovato delle meravigliose risorse interne psichiche, meravigliose perché io stesso mi sono meravigliato di quella libertà, autenticità, veracità che la pesantezza meccanicista del quotidiano mi aveva offuscato o fatto dimenticare: è proprio vero che diamo il meglio di noi stessi quando stiamo per soccombere … a tutto vantaggio della nostra sempre maggiore individuazione.
In effetti, l’individualità richiede il coraggio di essere soli e di opporsi a un mondo che tradisce e banalizza:
“… Eppure l’incomprensione e l’emarginazione sono il prezzo da pagare per restare fedeli a se stessi, e non è per caso che sulla vita di tanti spiriti liberi si sia allungata la grande ombra dell’esilio e dell’emarginazione … Il rifiuto coincide sempre con un vissuto di solitudine … “
(Aldo Carotenuto)
Di qui – se l’anima non è pronta per un risveglio spirituale buddhico o cristico – si manifesterà più seriamente il profondo desiderio di non appartenere a questo mondo; del resto, se l’anima fosse veramente pronta a seguire i passi di Buddha o di Cristo, non potrebbe mai pensare al suicidio, proprio perché il suicida, come abbiamo ricordato, crede ancora all’esistenza del mondo e lo considera ancora reale perché l’io, la mente e il mondo sono un tutt’uno come l’anello d’oro lo è con la sua forma circolare.
La presa in carico di noi stessi – sia da un punto di vista psicologico che spirituale – in modo autonomo e critico rappresenta infatti una esperienza di “riappropriazione animica” che ci richiede un certo tipo di separazione dal passato e di abbandono da vecchi schemi. Ecco perché un vero percorso di fede e di spiritualità autentica – o di psicoanalisi/psicosintesi - comportano spesso l’esperienza (o il rischio dell’esperienza) del proprio suicidio, un togliersi la vita per consentirne la trasformazione, per far emergere una nuova vita, abbandonando i vecchi modelli, gli “otri vecchi” che dovranno essere sostituiti per contenere “un vino nuovo”:
“Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra. Non sono venuto a portare la pace, ma la spada. Perché sono venuto a dividere il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera; e i nemici dell’uomo saranno i suoi familiari. Chi ama il padre o la madre più di me, non è degno di me; e chi ama il figlio o la figlia più di me, non è degno di me. E chi non prende la sua croce e mi segue, non è degno di me. Chi tiene conto della sua vita, la perderà, e chi avrà perduto la sua vita per amor mio, la ritroverà”.(Matteo, 10, 34)
Fintantoché la vita procede senza eccessivi urti, e magari nello sfavillio di gratificazioni più o meno vere, l’anima è come eclissata, accantonata e ridotta al silenzio dal torpore della banalità del quotidiano. Purtroppo, non solo si tratta di una situazione precaria, perché precario è l’equilibrio tra desideri e soddisfazioni che la sorregge, ma questo esautoramento dell’anima – forse tanto desiderato dalla consumocrazia imperante – è comunque una operazione che a lungo andare si rivelerà in pura perdita. Chi disgraziatamente si priva della presenza dell’anima rinuncia a se stesso; la maggior parte dei bipedi (ma non chiamiamoli uomini …) non sospetta neanche l’esistenza dell’anima, e lascia che altri ne parlino sotto varie forme: sembra quasi che l’anima esiste in quanto è stata istituzionalizzata da gente che per mestiere deve credere nell’anima.
C.G. Jung, in una lettera del 1946 adombrava l’idea che in ultima analisi la lotta per vivere ha in sé un grandissimo scopo:
“Viviamo per raggiungere il maggiore sviluppo spirituale possibile e per ampliare quanto più possiamo la nostra coscienza. Finché è possibile mantenersi in vita, sia pur solo a livelli minimi, bisognerebbe impegnare tutte le proprie energie per raggiungere l’obiettivo della presa di coscienza”.
La vita, continua Jung, è un esperimento che occorre portare a compimento. Sta di fatto però che la scelta del suicidio esiste e che rappresenta l’estrema risposta al tradimento della vita, un proprio inalienabile diritto, e, in taluni casi, un proprio inalienabile dovere verso se stessi, la propria dignità, la propria anima e la propria identificazione.
Queste mie scarse e povere parole, questi miei pensieri random, ben si intenda, non hanno voluto rappresentare il sacrilego manifesto a favore del suicidio, né l’assoluzione totale e indiscriminata nei confronti di coloro che tentano o portano a compimento tal nefasto gesto. E sono ben consapevole di aver debitamente omesso di trattare buona parte delle problematiche profondamente spirituali rilevanti, affrontate le quali, avrei potuto più facilmente offrire una felice scappatoia a ogni tentato suicida; ma il proposito del presente saggio non era riflettere sull’opportunità o meno del suicidio, né soprattutto quali consigli dare a chi lo stesse eventualmente maturando nella propria vita … : per un prontuario di questo tipo, non saprei cosa scrivere, anche perché molto dipenderebbe dal livello evolutivo dell’anima del potenziale suicida, e quindi una guida unica e sistematizzata sarebbe fuori luogo, oltre che impossibile. Nulla dunque di tutto ciò. Finalità del presente saggio era semmai altro, e di ben più basso profilo. Nel silenzio della cosiddetta Intellighenzia dominante, nella giostra del sistema consumocratico e benpensante … che ci vuole vivi perché così spendiamo i nostri soldi nella Babele dei suoi centri commerciali, e nella generica condanna di tutti gli attuali filoni religiosi, ho semplicemente voluto tentare di spezzare una lancia, almeno una, a favore di questi poveretti, poveretti come me, che in un dato momento della loro più o meno lunga esistenza possono non essere stati in grado di uscire dalla loro selva oscura di dantesca memoria; a loro il mio pensiero, la mia misera consolazione e la mia comprensione, sperando che il loro gesto, in potenza o in atto, non sia espressione di “disperata disperazione”, ma semmai di deliberata identificazione, di deliberata volontà intrisa di amore, di scelta chiara, precisa e concordante con il percorso da loro stessi intrapreso: solo così potranno evitare l’accidia che maledice il mondo e tutto il creato attraverso il loro gesto, e solo così potranno godere della comprensione e glorificazione dell’immensità delle sfere celesti.
A Dio e solo a Dio il giudizio. Il Signore ci chiama sempre e ci vuole suoi, ma vuole che la nostra scelta sia libera e autentica, degna di un vero processo di identificazione; ai malvagi, preferisce i buoni, ma ai falsi preferisce i cattivi. Il Signore Dio non sa cosa farsene di tristi pecoroni, che come molluschi lambiscono le coste della vita senza sapore e senza volontà, trascinandosi senza mèta: “… Conosco le tue opere; so che non sei né freddo né caldo. Oh, se fossi almeno freddo o caldo ! Ma perché sei tiepido, e né freddo né caldo, io sto per vomitarti dalla mia bocca ” . E se questa identificazione, per qualsiasi motivo, nella lunga storia di un’anima, deve eccezionalmente passare per la porta stretta dell’atto suicida, ebbene sia fatta la volontà di quest’anima, che nulla avrà da temere se sa di aver agito con intelligenza e amore. Del resto, non sta forse scritto che la pietra che i costruttori hanno rigettato è poi divenuta capo d’angolo e pietra angolare ? Non disse Gesù al contadino che arava il terreno di sabato … “Se sai quello che stai facendo, tu sia benedetto, ma se non sai quello che tu stai facendo tu sia maledetto …” ?
Mi piace chiudere questo capitolo con delle belle parole di Thomas Traherne; un augurio e un auspicio per tutti, proprio per tutti …
“Il godimento che tu hai del mondo non è mai quello giusto finché non ti svegli in paradiso ogni mattina, finché non guardi ai cieli, alla terra e all’aria come a gioie celestiali, con una stima così riverente di tutto, come se tu fossi tra gli angeli. Tu non godi il mondo al modo giusto finché il mare non ti fluisce nelle vene, e non ti vedi come unico erede del mondo intero, e anche qualcosa di più, perché vi sono in esso uomini ognuno dei quali è erede unico come te. Finché il tuo respiro non riempie tutto il mondo, e le stelle non sono i tuoi gioielli; finché le vie di Dio in ogni epoca non ti diventano familiari, come lo sono la tua tavola e il tuo camminare; finché non diventi intimo di quel nulla ombroso da cui è stato creato il mondo; finché non ami gli uomini in modo da desiderare la loro felicità con sete uguale a quella con cui desideri la tua; finché non ti delizi in Dio perché Egli è buono con tutti, finché ciò non avviene, tu non godrai del mondo”.
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